Il Pnrr prevede investimenti per 700 milioni di euro dedicati all’elettrificazione delle banchine, il cosiddetto cold ironing: 44 interventi in 34 porti. Obiettivo: ridurre al minimo la dipendenza dai combustibili fossili e l’impatto ambientale nel settore dei trasporti marittimi. Il cold ironing consentirebbe di creare sistemi per fornire energia elettrica dalla riva alle navi durante la fase di ormeggio, andando a ridurre l’utilizzo dei motori di bordo per la produzione di energia ausiliaria, facendo diminuire i livelli di inquinamento atmosferico (come le emissioni di CO2, gli ossidi di azoto e le polveri sottili) e acustico.
L’obiettivo di tali investimenti è quello di rendere le attività portuali più compatibili con quelle cittadine di una vita urbana; grazie a tali interventi è possibile ridurre i consumi energetici e aumentare la sostenibilità ambientale, contribuendo a ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 55% entro il 2030. Attualmente, però, la presenza delle banchine elettrificate – lo hanno denunciato diversi armatori come Grimaldi e Msc – è piuttosto limitata e, laddove presenti, non sono in grado di alimentare navi di grandi dimensioni, come traghetti e portacontainer. Questo mentre le unità più moderne sarebbero già in grado di utilizzare le nuove strutture.
Ecco così che il cold ironing diventa un elemento fondamentale nella competizione fra i terminal per accaparrarsi traffici e merci. Diventa inoltre quanto mai necessario avere impianti per la produzione di energia rinnovabile, con cui rifornire gli scali, mentre assistiamo a stop discutibili come quello della sovrintendenza alle pale eoliche sulla nuova diga perché comprometterebbero lo skyline della città portuale. Del resto è evidente che bisognerebbe comunque rivedere la rete elettrica per consentire l’allacciamento di vere e proprie città galleggianti da 10 mila persone come le ultime colossali navi da crociera. Insomma, se non si vuole che il processo di decarbonizzazione non si riveli un vuoto slogan, nei porti c’è ancora molta strada da percorrere.
Come è stato scritto in un precedente focus di Shipmag, “il porto può diventare un luogo di produzione e di utilizzo di energia, abilitandosi come ‘prosumer’ a tutti gli effetti, assumendo un ruolo molto più strategico rispetto alla sola funzione logistica”.
In questa fase di transizione ecologia, i traffici legati all’energia renderanno i porti più competitivi. Sono le navi e le compagnie di navigazione, sempre più concentrate e globali, a decidere quali porti scalare, in base anche ai servizi che potranno garantire. Alle Autorità portuali il compito di assecondare la domanda un’offerta infrastrutturale adeguata.
I grandi armatori, del resto, stanno investendo per trasformare le proprie flotte anche alla luce della normativa per cui entro il 2030, il 2% dell’energia a bordo deve derivare da biocarburanti, come ha ricordato recentemente Massimo Deandreis, direttore del centro studi Srm. Anche per questo, i porti italiani stanno diventando sempre più poli di sviluppo industriale ed energetico, terminali di energie fossili e rinnovabili, nonché luoghi di sbocco di pipeline provenienti in particolare dal Nord-Africa che portano flussi di energia e anche vicini a industrie energivore.
Uno studio del Srm ricorda che i primi cinque energy port italiani concentrano il 70% circa del traffico e sono Trieste, Cagliari, Augusta, Milazzo e Genova. “È nato e sta evolvendo in Italia, un nuovo modello portuale che sta ricalcando quelli più evoluti del Nord-Europa: il Green Port, vale a dire uno scalo sempre più rivolto a efficientare il proprio consumo di energia, a essere al servizio di navi che utilizzano combustibili alternativi e a dotarsi di infrastrutture di attracco e di attrezzature per il rifornimento diversificato delle navi”.
La sfida verde è solo all’inizio. I porti subiranno una radicale trasformazione. E’ solo questione di tempo.
Teodoro Chiarelli