Genova – Dopo la tragedia della Costa Concordia, diversi temi sono diventati preponderanti, oltre alla sicurezza. Fra questi, anche la sostenibilità e la questione dello Shiprecycling. Che cosa è cambiato negli ultimi anni su questo fronte, a livello europeo e internazionale, e cosa ci possiamo aspettare per il futuro? Per rispondere a questa e ad altre domande abbiamo chiesto allo Studio Siccardi Bregante & C. di raccontarci nello specifico a che punto siamo.
«Il problema della demolizione sostenibile delle navi viene sollevato a livello mondiale verso la fine degli anni Novanta e, a partir da quel momento, la Comunità Internazionale si attiva per regolamentare il processo di smantellamento delle navi giunte alla fine della cosiddetta vita operativa», afferma Alberto Bregante, tra le giovani leve dello Studio legale genovese. «Nasce così il concetto di “ship-recycling”, ossia di una demolizione sostenibile che possa garantire, attraverso il rispetto di determinati standard, la tutela dell’ambiente, della salute dei lavoratori e della sicurezza della navigazione. E allo stesso tempo, permettere il massimo riutilizzo dei materiali che compongono una nave. In un primo momento si decide di utilizzare la normativa già adottata in materia di traffico transfrontaliero di rifiuti, id est la Convenzione di Basilea del 1992 e, a livello europeo, il Regolamento (CEE) 259/93 e successivamente il Regolamento (UE) n. 1013/2006. Ciò, tuttavia, non si traduce in una risposta efficace al problema e l’International Maritime Organization (IMO) lavora insieme all’International Labour Organization (ILO) all’adozione di uno strumento che disciplini in modo specifico la demolizione di navi».
Nel corso degli anni il problema dell’abbandono del naviglio e della demolizione delle navi assume dimensioni sempre più preoccupanti, visto che le flotte vengono dismesse in Paesi senza alcuna legislazione in termini di sicurezza ambientale e sociale. «Nel 2009 viene adottata la Convenzione di Hong Kong per un riciclaggio delle navi sicuro e compatibile con l’ambiente la quale viene poi sostanzialmente trasposta a livello europeo nel Regolamento (UE) n. 1257/2013», prosegue ancora l’avvocato genovese. «In estrema sintesi, entrambe le normative prescrivono i) l’elaborazione ed il continuo aggiornamento dell’Inventario dei materiali pericolosi che si trovano a bordo, ii) ispezioni periodiche per verificare la completezza e veridicità dell’Inventario nonché iii) la preparazione, prima dell’inizio delle attività di demolizione presso un cantiere che sia stato appositamente autorizzato a seguito della verifica del Piano dell’Impianto di Riciclaggio, del cosiddetto Piano di Riciclaggio della Nave. Mentre la Convenzione di Hong Kong non è ad oggi ancora vincolante, il Regolamento del 2013 è entrato in vigore in data 31 Dicembre 2018 e, dal 31 Dicembre 2020, anche le navi non battenti bandiera di uno Stato Membro che fanno scalo in un porto dell’Unione Europea devono avere a bordo l’Inventario». A che punto siamo nel nostro Paese? «In Italia è stato poi adottato il Decreto Legislativo n. 99 del 30 Luglio 2020 contenente la disciplina sanzionatoria in caso di violazione di specifiche disposizioni del Regolamento del 2013. Per l’entrata in vigore della Convenzione mancano, ai sensi del primo comma dell’art. 17, le ratifiche di Stati che abbiano un determinato peso rispetto alla flotta commerciale mondiale ma soprattutto di Stati che abbiano una grande capacità di riciclaggio. L’India, uno dei due maggiori “ship-recycling States”, ha ratificato la Convenzione nel 2019 e si attende adesso la ratifica del Bangladesh, la quale dovrebbe essere sufficiente a soddisfare il requisito della capacità di riciclaggio. Esperti del settore nonché funzionari del governo del Bangladesh prevedono la ratifica di tale Stato nel corso del 2023. In ogni caso la Convenzione entrerà in vigore 24 mesi dopo il soddisfacimento dei tre requisiti previsti dal primo comma dell’art. 17.»
Negli ultimi due anni, a seguito dell’attuazione della normativa comunitaria, sono state comminate numerose sanzioni per le violazioni delle leggi relative alla corretta gestione delle demolizioni navali. Quali sono gli strumenti legali su questo tema che potrebbero rappresentare una svolta o un forte impulso perché gli armatori o i cantieri siano spinti sempre di più a riciclare gli scafi e i materiali? O è solo una questione economica? «Storicamente la prima sentenza di condanna di un armatore per la demolizione di navi in violazione della normativa applicabile è stata pronunciata nel 2018 dalla District Court of Rotterdam nel caso “Seatrade” anche se nel 2020, a seguito di impugnazione, la Corte di Appello dell’Aia ha rinviato la causa nuovamente al giudice di primo grado. Alla pronuncia olandese ha fatto seguito il caso “Tide Carrier” e nel marzo 2022 la Corte di Appello di Bergen ha confermato la sanzione pecuniaria e la condanna di sei mesi di reclusione per l’armatore della nave inflitte in primo grado in ragione della violazione della normativa applicabile.
Infine, nell’estate 2020 la Queen’s Bench Division inglese ha respinto le istanze di rigetto e, in subordine, di applicazione del rito sommario formulate nel procedimento introdotto dalla vedova di un lavoratore morto in Bangladesh nel corso delle operazioni di riciclaggio della M/n “Maran Centaurus”. Il procedimento vedeva convenuta la società che si era occupata per conto dell’armatore della vendita per demolizione della nave, affermandone il duty of care nel senso che, secondo quanto affermato da parte attrice, la società convenuta avrebbe scelto consapevolmente, a fronte di un prezzo alto come corrispettivo di vendita, di demolire la nave presso un cantiere dove non veniva garantita l’adozione di particolari precauzioni a tutela della salute dei lavoratori e dell’ambiente. Nel Marzo 2021 la Corte d’Appello inglese ha confermato la pronuncia di primo grado che affermava le ragionevoli prospettive di successo della domanda di parte attrice qualora fosse debitamente supportata nel giudizio a cognizione piena da sufficienti elementi probatori, respingendo quindi l’istanza di rigetto e di applicazione del rito sommario».
«Non vi è dubbio che pronunce giurisprudenziali di questo tipo, unitamente ad eventuali conseguenze sulla reputazione di un armatore e all’irrogazione di sanzioni previste ai sensi dell’art. 22 del Regolamento del 2013 oggi in vigore, possono sicuramente influire sulla scelta relativa alle modalità di demolizione di una nave nel senso di spingere a rivolgersi a cantieri che assicurino di riciclare la nave nel rispetto dell’ambiente e della salute dei lavoratori. Strumenti legali quali per esempio l’introduzione del cosiddetto “Carbon Index Indicator” possono poi incentivare alla demolizione delle navi più vecchie e meno eco-sostenibili ma la questione centrale dello ship-recycling non riguarda tanto il numero di navi che vengono smantellate ogni anno quanto piuttosto le modalità di demolizione che non devono mettere a rischio né l’ambiente né gli addetti ai lavori né tantomeno la sicurezza della navigazione. È proprio a questo scopo che è stata adottata la Convenzione di Hong Kong del 2009 e si auspica la sua prossima entrata in vigore.
A livello pratico, inoltre, un altro importante tassello verso una demolizione responsabile delle navi potrebbe essere rappresentato dall’inclusione di cantieri asiatici, a condizione che dimostrino l’effettivo rispetto dei requisiti del Regolamento (UE) n. 1257/2013, nella cosiddetta “Lista dei Cantieri Autorizzati” prevista dall’art. 16. Infine, per quanto riguarda i soli cantieri europei, sarebbero necessari incentivi statali al fine di renderli concretamente competitivi con quelli asiatici, atteso che i costi della manodopera e di gestione dei rifiuti sono sicuramente maggiori in Europa rispetto a Paesi come India, Bangladesh, Pakistan e Turchia, senza contare che anche i prezzi offerti per l’acciaio si differenziano di molto nelle due predette aree geografiche.
Tralasciando il 2020 per ovvie ragioni dovute alla pandemia, il settore del riciclo e dello smantellamento delle navi appare stabile negli anni, nonostante nuove normative e attività. Cosa manca a livello di architettura normativa internazionale IMO o simili per spingere verso una corretta gestione del lifetime di una nave? «Per una corretta gestione del “lifetime” di una nave occorre innanzitutto che le normative a tale scopo introdotte entrino in vigore (Convenzione di Hong Kong) e siano poi pienamente rispettate (Regolamento (UE) 1257/2013)», continua Alberto Bregante. «Tanto la Convenzione quanto il Regolamento, infatti, sono caratterizzati da un approccio “cradle to grave”, nel senso che vogliono disciplinare l’intera vita di una nave, dalla progettazione alla sua demolizione. Risulta quindi fondamentale garantire l’effettiva applicazione pratica di tali strumenti e, a tal fine, non si può prescindere dal comprendere quella che è la prassi in modo che lo ship-recycling sostenibile possa diventare la regola, e non l’eccezione, anche a livello pratico. Per certi aspetti gli strumenti normativi adottati potrebbero forse essere affinati, ma è altrettanto importante garantire che i cantieri dove si concentrano le operazioni di demolizione migliorino i propri standard fino a poter effettivamente assicurare la massima tutela dell’ambiente e della salute del personale che ivi lavora così come delle comunità che vivono nei pressi del cantiere.
All’inizio di Maggio è stata approvata in Italia la cosiddetta “Legge Salvamare”. Di cosa si tratta nello specifico, e come si interseca nel mondo dello shipping nazionale? «All’esito di un periodo di ”gestazione” di circa 4 anni, i due rami del Parlamento hanno approvato – l’11 maggio scorso – il testo della cd. “Legge SalvaMare”; l’articolato è in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e della conseguente entrata in vigore, in forma di “legge”», afferma Pietro Dagnino, dal 2001 nello Studio Siccardi Bregante & C. e socio dello stesso dal 2013. «Se non avverranno modifiche all’atto della pubblicazione, essa sarà rubricata “Disposizioni per il recupero di rifiuti in mare e nelle acque interne e per la promozione dell’economia circolare (“legge SalvaMare”)”. Gli obiettivi della legge si evincono dal titolo, ma sono meglio enunciati all’articolo 1 del testo: “contribuire al risanamento dell’ecosistema marino e alla promozione dell’economia circolare (collegata al risanamento, ndr), nonché alla sensibilizzazione della collettività per la diffusione di modelli comportamentali virtuosi volti alla prevenzione dell’abbandono dei rifiuti in mare, nei laghi, nei fiumi, nelle lagune e alla corretta gestione dei rifiuti medesimi”. La (futura) Legge si propone di essere uno dei tanti mezzi messi in campo per la lotta all’inquinamento, in questo caso, delle risorse idriche del pianeta. A monte della “nostra” Legge credo sia più che opportuno ricordare l’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile sottoscritta dai 193 Paesi ONU nel 2015 e alla quale la Legge in qualche modo si riferisce: l’Agenda ingloba n° 17 macro obiettivi tra i quali, al n° 14, quello di “Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile”», prosegue Dagnino, esperto di assicurazioni e sinistri marittimi.
«I dati evidenziati dagli studi ONU fanno effettivamente riflettere sull’importanza strategica dell’acqua presente sulla Terra per la sopravvivenza del pianeta e delle specie che lo abitano:
• Gli oceani coprono i tre quarti della superficie terrestre, contengono il 97% dell’acqua presente sulla Terra e rappresentano il 99% di spazio, in termini di volume, occupato sul pianeta da organismi viventi
• Più di 3 miliardi di persone dipendono dalla biodiversità marina e costiera per il loro sostentamento
• A livello globale, il valore di mercato stimato delle risorse e delle industrie marine e costiere è di 3 mila miliardi di dollari annui, ovvero circa il 5% del PIL globale
• Gli oceani contengono approssimativamente 200.000 specie identificate, ma i numeri reali potrebbero aggirarsi rientrare nell’ordine dei milioni
• Gli oceani assorbono circa il 30% dell’anidride carbonica prodotta dagli umani, mitigando così l’impatto del riscaldamento globale sulla Terra
• Gli oceani rappresentano la più grande riserva di proteine al mondo, con più di 3 miliardi di persone che dipendono dagli oceani come risorsa primaria di proteine
• Le industrie ittiche marine danno impiego, direttamente o indirettamente, a più di 200 milioni di persone
• I sussidi per la pesca stanno contribuendo al rapido esaurimento di numerose specie di pesce, e stanno impedendo azioni tese a salvare e ripristinare le riserve ittiche globali e gli impieghi ad esse collegati, portando le industrie ittiche degli oceani a produrre 50 miliardi di dollari americani annui in meno rispetto al loro potenziale
- Il 40% degli oceani del mondo è pesantemente influenzato dalle attività umane, il cui impatto comprende l’inquinamento, l’esaurimento delle riserve ittiche e la perdita di habitat naturali lungo le coste [fonte: UNRIC.ORG]
«La Legge ha alle spalle uno studio di approfondimento, avviato dal Governo Italiano nel 2018, che ha preso le mosse dall’analisi dei dati relativi alla presenza dei rifiuti – per lo più di origine plastica – negli ambienti acquatici. Come comunemente noto, i numeri sono impressionanti: Le materie plastiche sono le componenti principali dei rifiuti marini, che si ritiene rappresentino fino all’85% dei rifiuti marini trovati lungo le coste (beach litter), sulla superficie del mare e sul fondo dell’oceano (marine litter). Si stima che vengano prodotte annualmente, a livello mondiale, 300 milioni di tonnellate di materie plastiche, di cui almeno 8 milioni di tonnellate si perdono in mare ogni anno. È bene poi ricordare che, precedentemente alla Legge in commento, vi sono state altre iniziative volte a combattere l’inquinamento, soprattutto marino, da plastiche: ad esempio, l’emanazione di norme che hanno vietato l’uso di shopper non biodegradabili (in attuazione della Direttiva europea 2015/720/UE); l’adozione di norme che tendono a promuovere la produzione e la commercializzazione dei cd. “cotton fioc” in materiale biodegradabile e compostabile e di prodotti cosmetici senza microplastiche. Non ultima, la promulgazione di una legge del 2015 (n. 221) che (i) ha individuato i porti idonei per avviare le operazioni di raggruppamento e gestione dei rifiuti raccolti durante lo svolgimento delle attività di gestione delle aree marine protette e (ii) ha dettato disposizioni per la riduzione dell’inquinamento da mozziconi di sigaretta che, come noto, impattano in modo purtroppo rilevante sull’ecosistema marino. In realtà, molte altre misure sono state adottate nel nostro ordinamento per prevenire e limitare la produzione di rifiuti di plastica, ma questa sede non credo ne consenta la trattazione. Vale la pena rammentare che tra le tematiche di riferimento è espressamente citata l’”Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile” che – come ricordato in apertura – include all’interno dei suoi obiettivi, anche la lotta al cambiamento climatico, l’educazione ambientale e lo sviluppo eco-sostenibile e la tutela del patrimonio ambientale medesimo». In base alle nuove normative internazionali, esistono una serie di nuovi parametri entro i quali le compagnie devono muoversi per salvaguardare l’ambiente. Cosa rappresenta e perché è importante un dato come il Carbon Intensity Indicator? «Il Carbon Intensity Indicator (o CII), introdotto dalla Regola 28 del Capitolo 4 dell’Annesso VI della Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi (MARPOL), è una delle misure volte a garantire l’efficienza energetica delle navi», commenta Francesca Ronco, nello Studio Siccardi Bregante & C. dal 2003, socia dal 2015. «Nella propria strategia globale per la riduzione dei gas ad effetto serra l’IMO ha, infatti, deciso di affiancare alle misure tradizionali, quali l’uso di combustibili a basso contenuto di zolfo, misure di diverso tipo che per la prima volta appunto richiedono al mercato a vari livelli (dai costruttori agli Armatori) una maggiore attenzione all’efficienza delle navi sotto il profilo energetico. Ecco, quindi, che ai coefficienti relativi all’efficienza energetica delle navi in base alle loro caratteristiche costruttive, quali l’Energy Efficiency Design Index (EEDI) e Energy Efficiency Existing Ship Index (EEXI) – rispettivamente per le navi nuove e per le navi esistenti – sono state affiancate misure operative, che non riguardano direttamente le caratteristiche tecniche della nave (che rimangono fisse, a meno di cambiamenti di design), ma le modalità con la quale essa è operata, quali lo Ships Energy Efficiency Management Plan (SEEMP), il Data Collection System for fuel oil consumption (DCS) e il CII appunto».
In vigore dal primo Gennaio 2023 per tutte le navi di stazza lorda uguale o superiore alle 5.000 tonnellate impiegate in traffici internazionali, il CII misura l’intensità di carbonio di ogni nave per come essa viene impiegata anno per anno e viene, infatti, espresso in grammi di CO2 emessa per capacità di carico e miglio nautico; si basa cioè sui viaggi effettuati dalla nave e sulle sue effettive emissioni nell’arco di un anno. Sulla base dei dati raccolti ogni anno dall’Armatore viene calcolato il CII annuale “raggiunto”, comunicato allo Stato di bandiera, che viene documentato e verificato rispetto al CII annuale “richiesto” (calcolato in base alle Linee guida IMO) al fine di assegnare un voto (“rating”) da A a E a ciascuna nave (major superior, minor superior, moderate, minor inferior, or inferior performance level). Nel caso in cui una nave ottenga una valutazione E per un anno o D per tre anni consecutivi l’Armatore dovrà valutare, adottare e implementare a bordo misure correttive (da inserire nel SEEMP), volte a migliorare la performance della nave. È previsto che i valori del CII richiesto diventino sempre più stringenti a mano a mano che si procede verso il 2030 ed è prevista a livello IMO una revisione degli stessi entro l’1.1.2026 per valutarne l’efficacia: si tratta, quindi, dell’ennesima sfida che gli Armatori si trovano oggi ad affrontare nel gestire le proprie flotte contribuendo alla tutela dell’ambiente».