“La nostra attività è legata a doppio filo alle determinazioni delle società terminaliste. Da tempo si discute circa la necessità di investire sui lavoratori portuali ma, a tutt’oggi, nulla è cambiato”. Mauro Piazza, Presidente della Nuova Compagnia Lavoratori Portuali di Venezia, lo ribadisce da tempo. “Il punto non è tanto sulla formazione, ma su quale tipo di formazione. E aggiungo anche che va sottolineato il “perché” di determinate scelte. Nel senso che già da parecchio leggiamo e sentiamo parlare di automazione, digitalizzazione, sistemi avanzati. Che vanno benissimo, per carità, dipenderà poi dal singolo operatore adottare un processo virtuoso di lavoro e di efficienza. Ma, per quanto riguarda la nostra realtà, questa modernizzazione è rappresentata unicamente dall’arrivo di nuovi mezzi più green e sostenibili, mentre sul resto ancora poco si è visto”.
Grandi temi come IoT e digitalizzazione, per non parlare di Digital Twin e processi di automazione dell’imbarco e sbarco merci, sembrano lontani ancora dalla laguna. “Come dicevo, al momento siamo molto distanti da queste realtà. Ma poco importa, sinceramente, se dobbiamo parlare del tema concreto. E cioè del fatto che a Venezia abbiamo la compagnia di lavoratori portuali più ‘vecchia’ d’Italia. E non per istituzione della stessa, ma per età media dei lavoratori. Io ho 62 anni, il mio vice ne ha 61. Ci sono circa 55 lavoratori che superano i 50 anni d’età, ed un’altra trentina sono oltre i 55 anni, con ogni ed evidente conseguenza sull’effettiva forza lavoro considerata la componete fisica propria dell’attività portuale. Come possiamo considerare che scendere in stiva a 60 anni sia come farlo a 30?”.
La prospettiva di Piazza non è nuova, e non è neanche unica nel panorama italiano nel suo complesso. Non è facile accedere al mondo portuale, che resta un mondo complesso ma chiuso, dove il lavoro è anche ben retribuito ma arduo da comprendere dal di fuori. “Serve un ricambio generazionale, anche e soprattutto nell’interesse della sicurezza stessa degli operatori portuali. Ma oltre a questo, si dice spesso che i giovani non abbiano voglia di lavorare; considerata la nostra realtà posso affermare senza tema di smentita l’impegno e la passione di tanti ragazzi interinali che lavorano già in porto; persone formate su cui sono state investite ingenti risorse ed energie. Che poi, però, vengono inesorabilmente attratti dalle prospettive più stabili del mondo esterno al porto. E questa è una sconfitta di tutto il comparto, soprattutto perché implica una perdita netta di personale formato e motivato”.
“Se si dà una prospettiva realistica, chiara e praticabile, un giovane lavoratore interinale è disposto ad attendere le tempistiche connesse al ricambio generazionale”, continua Piazza. “Ma se gli si dice di aspettare e basta, senza dargli alcun riferimento temporale, non avremo mai un ricambio semplice e lineare. Chiaramente le dinamiche di cui sopra non possono prescindere dall’attivazione di un accompagnamento, uno scivolo verso la pensione per i lavoratori più anziani. Ritornando al tema della formazione, risulta evidente come la stessa non possa prescindere dall’attinenza rispetto all’età del lavoratore, non fosse altro per una questione di opportunità, in altre parole: formare lavoratori di 60 anni, e in quanto tali prossimi alla pensione, su temi quali l’automazione e la digitalizzazione che utilità può avere per il sistema porto?”. Come investire però risorse adeguate, e chi deve assumersene la responsabilità? “In questo caso ci viene in aiuto la legge 84/1994 la quale, come noto, prevede espressamente gli strumenti di cui al comma 15 bis dell’art. 17 conferendo alle AdSP le rispettive prerogative, non senza precisare che, a quanto è dato sapere, è lo stesso MIT a caldeggiare l’esodo pensionistico. Ma con quote che non possono essere troppo distanti dal reddito da lavoro, altrimenti mi sembra ovvio che saranno misure di corto respiro che nessun lavoratore accetterà”.
Leonardo Parigi